Pubblicato da: azibegna | febbraio 24, 2010

Living in Korogocho

Korogocho è una parola kikuyu. Significa confusione, ma come tutte le traduzioni non rende l’idea di ciò che rappresenta. Korogocho si usa per indicare qualcosa che non è chiaro, dai confini labili, una zona d’ombra, una situazione intricata.

Quello che mi ha stupito sono i lavori che le persone fanno per sopravvivere nello slum. Le donne ad esempio raccolgono i sacchetti dalla spazzatura. Sono le classiche buste della spesa dei supermercati. Le prendono, le lavano al fiume e poi le rivendono due al prezzo di uno scellino, un centesimo di euro. Un’altra occupazione è quella dei venditori ambulanti. Ci sono quelli che vendono frutta, affilano coltelli, risuolano scarpe, commerciano in abiti usati, vendono canna da zucchero (da succhiare come fosse un lecca-lecca). Su dei bracieri improvvisati si arrostiscono pannocchie, pesce, verdure. Ci sono uomini che vendono noccioline, lacci per le scarpe o che fanno la barba per cinquanta scellini. Le donne spesso hanno i salon, piccoli negozietti dove acconciano, tagliano capelli e fanno le treccine. Spesso vendono anche ricariche telefoniche e preparano da mangiare su piccoli fuochi a legna.

La maggior parte dei giovani vanno a scuola (200 scellini la retta mensile), ma molti lasciano i banchi per mettersi al lavoro. Alcuni diventano boda boda (dall’inglese border to border), cioè taxisti su bicicletta. Aspettano i clienti agli angoli delle strade e li portano in giro pedalando. È un lavoro che gli dà da vivere, ma che spesso li espone a violenze e li induce all’uso di droghe per sopportare il lavoro estenuante.

“Lavoro informale” è un termine molto politically correct per indicare i lavori illegali. Il più diffuso è quello del venditore di changa’a. Una bevanda alcolica molto forte che le donne distillano nelle case e che poi rivendono per le strade. Il changa’a è dato dalla fermentazione del sorgo o del mais a cui spesso, per potenziarne l’alcolemia, viene aggiunto il metanolo, sostanza tossica che l’anno scorso ha ucciso in Kenya 135 persone. Ci sono addirittura dei locali, nulla di più che capanne, dove la gente si riunisce per ubriacarsi con questa mistura micidiale. Le forze dell’ordine conosccono questi luoghi, ma non possono fare nulla perché non è sicuro, soprattutto per i poliziotti, aggirarsi in certe zone la notte.

Per quanto sia difficile da credere però, la maggior parte degli abitanti di Korogocho sono persone che hanno lavori onesti e che vorrebbero avere una vita tranquilla e dignitosa. Sono loro le prime vittime delle violenze. Rapine, aggressioni, stupri, furti e anche omicidi vengono perpetrati da abitanti dello slum sulla stessa popolazione di Korogocho. Quello degli stupri è, ad esempio, uno dei problemi più sentiti. Le donne, per ragioni economiche, spesso devono lavorare fuori casa. Al ritorno nello slum, la sera, sono facili bersagli e in un luogo dove il tasso di sieropositività è molto alto questo spesso vuole dire contrarre il virus.

Ci sarebbero altre mille cose da raccontare su come le persone vivono, o meglio, sopravvivono nello slum. Ma la cosa che più mi sorprende di Korogocho non riguarda i suoi abitanti, ma americani e giapponesi che proprio qui hanno iniziato a fare del turismo. Ci sono gite organizzate che portano gli stranieri nello slum per mostrare la povertà estrema. C’è chi dice che questo è un bene perché sensibilizza l’opinione pubblica sul problema, altri lo apprezzano perché porta denaro agli abitanti. Io credo che il turismo a Korogocho possa avere una ragion d’essere se fa comprendere alla gente la realtà e le spinge a fare qualcosa per cambiarla. Credo però che le persone spinte da questo motivo siano molto poche. Gli altri soffrono di voyerismo del macabro, un po’ come quelli che in autostrada rallentano quando passano davanti ad una macchina accartocciata e sperano di vedere qualcosa.

Tommaso Cinquemani


Risposte

  1. stesse sensazioni nella township di Knysna.

    bravo tom


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